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Cinicchia e il tesoro di Capretta

tratto da un testo di Balilla Beltrame

 Vecchio passatempo dei nostri antenati, la ricerca dei tesori. Un manoscritto settecentesco ne elenca una ventina nascosti nel contado fabrianese. I Chiavelli, signori e padroni della città, avevano costruito un castello sulle alture di Attiggio, la romana Attidium; a pochi chilometri da Fabriano.

La fine tragica della famiglia sterminata durante la messa, il 26 maggio 1435, fece nascere la leggenda del tesoro, rafforzata dal ritrovamento in una grotta, di una capra tutta d’oro. Da questa scoperta deriverebbe il nome della località Capretta.

Nelle carte segrete dei cercatori si legge: Tesoro di Capretta. Per lingua detta da tre nazioni, nel contado fabrianese essendosi [i Chiavelli] inimicati con certi altri signori, misero tutto il loro tesoro nel detto castello con segno di una pietra di piedi 5, longa 2,5. Cava sotta piedi 2,5 che troverai una scrofa d’oro con cinque figli di gran valore infinitissimo. Con Guardia semplice.

Guardato cioè, da un solo diavolo. La leggenda raccontata per bocca del popolo, parla però di una chioccia con 12 pulcini. Gli anziani del paese raccontavano che esiste una galleria di collegamento con il castello. Dell’antico maniero oggi rimane solo la spianata ricoperta di vegetazione, e tanti segreti nel sottosuolo.

Filippini viveva a Fabriano nel 1875 quando Cinicchia per ritrovare il tesoro di Capretta tentò di uccidere un cristiano. Ricordava quest’uomo da poco uscito di prigione, con “la barba foltissima e lunga, lunghi fino alle spalle aveva i capelli, torvo lo sguardo, fiero e pensoso l’aspetto, lento e grave l’andare.

Ecco dunque come si svolsero i fatti.

Nel mese di febbraio 1875, Zenobio Vecchi detto Cinicchia, nato il 27 giugno 1843 da Albina Castrica, moglie di Romualdo, nel quartiere del Borgo della Pisana, con la sua potenza di pranoterapista aveva guarito dai dolori artritici Francesco Conti detto Cèllo, conciatore della ditta Mercurelli di Fabriano.

Lo aveva convinto a ricorrere alle cure del mago una certa Marianna Guerci detta la cimarra, anch’essa risanata dal male. Durante le sedute terapeutiche erano diventati amici. Il conciatore acconsentì ben volentieri di tentare l’impresa che li avrebbe per sempre arricchiti.

Il 10 marzo, Vecchi e Conti, approfittando del tempo buono, si recarono quindi a Capretta.

Giunti sul luogo, er mago fece scongiuri e segni misteriosi con le mani e con bacchette a forcella, simili a quelle dei rabdomanti. Invitò Francesco a inginocchiarsi e d’innalzare gli occhi al cielo; gli legò un dito con una fettuccia rossa e punzecchiandolo con uno spillo, fece uscire alcune gocce di sangue.

Con esse, scrisse sul Libro dei riti, magiche parole. Poi allontanatosi di qualche passo, impugnata la pistola a doppia canna che teneva nascosta sotto il mantello, Cinicchia esplose un colpo in aria dicendo forte: “A questo segnale si aprano gli abissi!”. Quindi diresse l’arma verso Francesco, e sparò l’altro colpo sulla testa.

Per fortuna il cuoio capelluto preso di striscio, fermò la pallottola. Il conciatore cadde a terra tramortito. Riavutosi dallo spavento, fu dallo stesso Cinicchia accompagnato in città, in casa di Romualdo Serafini, nel Borgo della Pisana, per il primo soccorso, giustificando il ferimento accaduto per disgrazia.

Visto che Francesco sanguinava abbondantemente, il Serafini lo portò all’ospedale: erano le nove della sera. Il chirurgo  tolse il proiettile grosso come una nocciola, giudicò la ferita guaribile in 20 giorni, “salvo accidenti”, e avvisò i carabinieri. Iniziarono subito le ricerche del mago, ma questi era sparito.

Il giorno dopo, il malcapitato afflitto da gran mal di testa, raccontò tutto ai gendarmi. Diede però false generalità dell’amico per complicità o per ignoranza: il compare si chiamava Capisciotti Zenobio, (il “C.Z.” riportato dai giornali).

La latitanza di Cinicchia durò circa otto mesi. Veniva catturato dai carabinieri, da tempo sulle sue tracce. Al processo avviato il 21 dicembre dello stesso anno, l’avvocato d’ufficio Augusto Bruschettini, non riuscì a convincere i giurati con la tesi della disgrazia. Il Vecchi fu condannato per “mancato omicidio volontario”, a dieci anni di lavori forzati, al pagamento dell’indennità della parte lesa e al pagamento delle spese processuali. Zenobio Vecchi respinse il verdetto, si rivolse alla Corte di Cassazione di Roma. Con sentenza del 18 agosto 1876, il ricorso fu rigettato.

Enrico Filippini riportando il fatto nel saggio “Un tesoro presso Fabriano” conclude: “A Fabriano non l’hanno più visto e credono che sia morto nel Napoletano.”

I documenti anagrafici segnano l’avvenuta morte nella città di Perugia, il giorno 29 dicembre del 1901.